Nell’ormai non più vicinissimo 2013 vedeva la luce Filth, il secondo film di Jon S. Baird (il quale, cinque anni dopo, avrebbe realizzato il lodatissimo Stanlio & Ollio, con Steve Coogan e John C. Reilly). Per il lungometraggio del 2013, Baird si dedicò sia alla regia che alla sceneggiatura, facendo riferimento al romanzo omonimo – in italiano noto come Il lercio – di Irvine Welsh (autore già ampiamente conosciuto per l’opera Trainspotting, sulla base di cui, nel 1996, è stato realizzato il celebre film con Ewan McGregor ormai divenuto un cult). La pellicola, nei suoi 97’ di durata, gioca con i generi fondendo sapientemente thriller, commedia, poliziesco e dramma psicologico. Il film vanta inoltre un cast di indubbio spessore tra cui spicca, in qualità di protagonista, un brillante James McAvoy.
La trama del film
La città di Edimburgo sembra scossa dal crimine, ma una branca della polizia della capitale scozzese è pronta ad occuparsi dei crimini irrisolti. Équipe poliziesca che, però, appare essere composta da individui di evidente dubbio gusto: il distratto capo della squadra, Toal (John Sessions), il cocainomane Ray (Jamie Bell), il bellicoso Gillman (Brian McCardie), il pungente Inglis (Emun Elliott) e Bruce Robertson (James McAvoy). Quest’ultimo riunisce in sé tutte le peggiori caratteristiche dei colleghi, esibendo comportamenti eccessivi che appaiono lontanissimi dalla rispettabilità che dovrebbe appartenere alla sua figura: è estremamente promiscuo, fa uso di sostanze stupefacenti e un evidente abuso di alcol, semina discordia tra i colleghi nel tentativo di ottenere una promozione e punteggia di dispetti la quotidianità del suo migliore amico Clifford Blades (Eddie Marsan).
Solo la moglie e la figlia di Bruce, lontane da lui per ragioni inizialmente taciute, risultano esentate dalla sua cattiva condotta. Quando un omicidio scuote la città, la squadra di polizia si getta nella ricerca del gruppo di sospettati. Ma nel corso dell’indagine, anche a causa di tutti gli eccessi di cui si macchia, lo stato mentale di Bruce – già in cura da un medico psichiatrico, il dottor Rossi (Jim Broadbent) – si farà sistematicamente più turbato. Con il passare delle ore gli scherzi di Bruce diventeranno sempre più inopportuni e la sua condotta sempre più biasimabile; alcuni stati allucinatori ben noti al protagonista si intensificheranno e faranno capolino dal suo passato certi traumi repressi che rischieranno di gettarlo in una spirale di tormenti.
Filth: un dramma psicologico dalla tecnica accortissima che gioca a mascherarsi da film d’intrattenimento leggero
Nel suo dissimulare una quintessenza da pop corn movie eccessivo e irriverente, il film di Baird non riesce a nascondere del tutto l’elevato livello di tecnica che lo ha reso possibile. In Filth il trucco c’è, ma non si vede – quantomeno non subito – e il livello di maestria è tale da non rivelarsi immediatamente, in favore di una gradevole scoperta graduale. Dietro a quella che sembra una commedia a tratti addirittura volgarotta, incastrata in un poliziesco elementare, si nasconde una tecnica accortissima e ammirevole, che permette ribaltamenti di toni e registri e giustifica orpelli registici e narrativi motivati. Conferma e dimostrazione di tale maestria è l’uso di un elemento tanto rischioso quanto tendenzialmente abusato quale è la rottura della quarta parete, una dinamica che in questo film viene utilizzata – palesandosi per mezzo di sguardi, voice-over e interpellazioni – in modo accorto, ragionato e funzionale allo svilupparsi narrativo.
La scrittura del film, in questo senso, si rivela efficacissima e brillante. Non solo, beninteso, a livello di trama (la quale, per quanto sviluppata debitamente, era indubbiamente in gran parte debitrice nei confronti del romanzo di Welsh da cui è tratta) ma, più propriamente, sul piano della scrittura cinematografica. La pellicola altalena in modo calibrato e magistrale tra i generi – commedia, thriller, dramma psicologico, poliziesco – dimostrandosi credibile in ognuno di essi e offrendo ribaltamenti e colpi di scena ben scritti e squisitamente riusciti. Il lungometraggio si avvia muovendo nella direzione del più classico e irriverente dei film leggeri per poi trasformarsi gradualmente, in modo sibillino sotto gli occhi dello spettatore, in un’esplorazione della psiche turbolenta del protagonista.
D’altronde, che la scrittura sia uno dei fiori all’occhiello di Filth lo si comprende immediatamente venendo a conoscenza del personaggio principale. Non unicamente nell’operazione della scrittura del personaggio (dove comunque la base welshiana si rivela nuovamente necessaria e funzionale) nella sua totalità, ma anche e soprattutto per quanto riguarda la stretta di mano. Così viene definito, in gergo tecnico, il modo in cui il personaggio principale viene presentato al suo pubblico, generalmente nei primi minuti. E, in questo caso, la stretta di mano è memorabile, tecnicamente ineccepibile, unica nel suo genere e anticipatrice di tutte – o quasi – le caratteristiche che rendono il personaggio inimitabile. Stretta di mano che, indubbiamente, viene aiutata dall’interpretazione di James McAvoy (il quale confermerà, con la sua filmografia precedente e futura, di essere uno dei migliori performer della sua generazione), che si mantiene impeccabile per tutta la durata del film.
Filth, nell’insieme, oltre ad essere un lungometraggio ben scritto e realizzato, è indubbiamente un film dal marcatissimo stampo British. Stampo che si riflette, inevitabilmente, in un certo tipo di umorismo tutto anglosassone (coniugato ad una determinata componente di scorrettezza più tipicamente scozzese) e nel suo coniugarsi ad una componente più significativamente drammatica – un connubio difficilmente riscontrabile, ad esempio, in pellicole di matrice hollywoodiana. E, nella frenesia che permea la sua struttura, insita nella scrittura, nella regia e nel montaggio, il film è indubbiamente debitore nei confronti dello stile cinematografico di Guy Ritchie, di cui ricalca alcune dinamiche e cornici situazionali.
Nella sua totalità, Filth è una pellicola dalle premesse marcatamente ironiche e canzonatorie che, però, si sposta per gradi sul binario dell’esplorazione delle turbe psichiche del suo protagonista. Un protagonista che, a sua volta, accattiva il proprio pubblico mostrandosi per l’anti-eroe che è: eccessivo, sgradevole, compromesso, difettoso. Questi elementi, uniti ad una scrittura e ad una realizzazione (entrambe dallo stampo marcatamente British) che non lasciano nulla al caso e stupiscono lasciando trasparire un’inaspettata intelligenza, fanno della pellicola una scoperta gradita e si apprestano, forse, a renderlo un cult del domani.