Vittoria è una bambina contesa tra due mamme nel film del 2018, Figlia mia, diretto da Laura Bispuri e presentato al Festival di Berlino dello stesso anno ed è una riflessione sulla conflittualità della maternità, sulla differenza e sui limiti dei legami acquisiti e di quelli sanguigni.
Ma è anche un coming of age improntato all’emersione della femminilità padrona di sé, autonoma, senza paure, senza timore di disobbedienza o di schieramenti al di fuori dell’opinione pubblica.
Figlia mia – Trama
Tina (Valeria Golino) ha adottato la piccola Vittoria (Sara Casu) poco dopo averla fatta nascere e l’ha cresciuta riempiendola di affetto e di premure, con le modeste forze economiche sue e del marito, cullando la bambina in una sorta di infantile timidezza.
La madre naturale Angelica (Alba Rohrwacher), tra i suoi cavalli e le sue birre, aveva una vita troppo imprevedibile e disinvolta, per allevare una neonata, così ha ceduto a Tina la figlia, in cambio di un sostegno economico duraturo per sé e di un silenzio a vita sulle vere origini della piccola.
Ma uno sfratto esecutivo mette a rischio l’equilibrio già precario della vita di Angelica, che comincia a darsi da fare per mantenere le proprietà e gli animali, chiedendo aiuto a Tina che non può permettersi tanto di più di ciò che già le concede sistematicamente.
Inevitabile il contatto tra Angelica e Vittoria, un incontro che cambierà la vita ad entrambe, una forza magnetica che le attrae e le compensa, le disvela, fino a fare diventare quella bambina, fuscello pieno di paure, un raggio di sole pronto sfrecciare nel cielo.
Figlia mia – Recensione
Figlia mia è un racconto metaforico che cerca di ritrarre le contraddittorietá dell’essere madre e dell’essere figlia, in un intreccio di legami e di sviluppi imprevedibili a tavolino, che vanno spesso e volentieri come e dove non ci si aspettava andassero.
Ma è grazie a questa deviazione dal fato stabilito su carta che la crescita avviene, la consapevolezza interiore ed esteriore si espande e gli omissis tra adulti trovano una via di sbocco.
Racconto metaforico sulla contraddittorietà della maternità
Così Tina ed Angelica, due madri-non madri al contempo, sorelle in apparenza, rivali inevitabili nel cuore di Vittoria, diventano poli opposti e complementari, due elementi basali che si fronteggiano per un dominio di carne e abbracci, ognuna sfoderando le proprie armi peculiari.
Tina offre la dolcezza, la sicurezza e la protezione della domesticità familiare, che rasserena ed accompagna, Angelica tocca la terra, spaventa, squilibria e ride grossolanamente in faccia alla barbarie della vita.
Ma entrambe si trasformano nel loro opposto, proprio per amore della figlia: Tina si ubriaca e arriva a sfidarla apertamente, affermando di essere disposta a qualunque cosa pur di manetenere la bambina.
Angelica non lo dice, ma di fatto lo fa: rinuncia al denaro e ad una via di fuga facile per restare sul suo campo di battaglia, guadagnandosi giorno per giorno di che vivere, tra marchette e bestie a due o a quattro zampe, per uno sguardo tenero di sua figlia verso un cavallo, per una vicinanza che non si spiega ma che c’è e tocca l’anima.
Due madri-non madri: confliggono, si compensano, diventano i rispettivi opposti
Il tesoro nascosto nelle falde della terra che potrebbe togliere dai guai economici Angelica oltre a cambiare il destino di quei luoghi, esiste, non esiste, non si sa, forse è una chimera, sicuramente è nascosto in un pertugio e richiede una creatura sottilissima per scovarlo.
Vittoria sembra essere la creatura designata a quel compito che come tutte le cose che comportano una crescita personale appare subito spaventoso,infido e necessario. Sullo sfondo degli occhi da bambina c’è la diffidenza, il bullismo subito perché diversa con i suoi capelli arancioni, la paura verso gli altri, il suo sentirsi piccola nel mondo grande, il non appartenere veramente a nessuno, la sua curiosità istintiva verso la bizzarria della madre, la scoperta di una bugia così grande sulla propria nascita.
Nascosto nelle viscere della terra c’è il suo fantasma, quel passo indietro che non la fa scegliere, quel nervo scoperto ed oscuro che deve affrontare a cui deve mettere un guinzaglio. Così la rinascita si compie.
Geografia evocativa, spigolosa, barbara e magnetica
Le svolte di Figlia mia sono coordinate, probabilmente prevedibili a grandi linee, e guadagnano in magneticitá grazie alla cornice dell’ambientazione.
Il panorama bucolico e selvaggio della campagna sarda crea uno scenario ad hoc per questo apologo. A due passi dal mare, in assolata estate post fine scuola, Figlia mia cammina tra abitazioni sparute, bar di paese, alture ventose, accampamenti di case anomale, un mare che si vede poco, un mare di allevamenti ittici e basta, padrone poco spensierato, mentre il resto si consuma tra sentieri irriconoscibili di colline brulle, una terra di pastori ed animali bradi, che contiene segreti nascosti e meraviglie non per tutti.
Figlia mia – Cast
Questa natura dalla cifra schietta e ruvida, che ritroviamo ad esempio nello sguardo di altra cineasta, Alice Rhorwacher, stride con un cast di brave attrici, un po’ troppo pettinate per i ruoli in questione. La Golino ha una presenza scenica quasi urbana e non primitiva come quei luoghi richiederebbero. Meglio Alba Rhorwacher, ma la sua parola non corrisponde all’iconografia della dannata e sfortunata che le si costruisce attorno.
In entrambe in effetti l’accento sardo non sussiste, e se appare, non ne riprende assolutamente le sonorità, quindi al di là di un lavoro tecnico da attrici navigate sulla dinamica della storia e delle relazioni, la questione del personaggio in parte qui non è molto soddisfatta. Manca significativa visceralità geografica.
Interpreti troppo pettinate; non attenzione all’accento
Al contrario la piccola Casu ha un potere attraente, una fisicità che è al contempo fragile e possente, quando si arrampica ,trascina corpi, corre tra le rocce, si oppone al vento impazzito, si intrufola in impossibili meandri sotterranei.
Forse avremmo voluto vedere qualcosa di più completo rispetto ad una danza tra madri che tutto sommato si esaurisce nel primo atto, tra presentazioni tradizionali dei personaggi e premessa con cui un equilibrio appena descritto viene subito messo in discussione.
Da questo punto di vista, non giova una ripresa manuale, ostinata in certi momenti, in quanto acuisce la non verosimiglianza di volti e figure in questo limbo arido di Sardegna. Il colore chiaro che impone il sole di queste latitudini consegna spesso gli esterni ad una luce più abbagliante di quella che i singoli personaggi possono sopportare, mentre gli interni sprofondano nei contrasti, per protezione e riflessione dalle verità esterne.
Figlia mia segue un percorso fin troppo chiaro e tradisce una diseguaglianza tra gittata originale e resa pratica: il risultato non esplode né esplora come vorrebbe, non schiude sguardi alternativi semmai atterra la voluntas esploratrice pur ben identificata. Una lacuna di sviluppo, di originalità, nei turning point narrativi ed una certa stancante pigrizia nel far indossare sempre agli stessi volti, i personaggi di storie che con quei volti c’entrano poco o niente. Peccato.