Con Father Mother Sister Brother, presentato in anteprima mondiale alla 82ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, Jim Jarmusch (Coffee and Cigarettes, Paterson) conquista il Leone d’oro e riafferma la sua centralità nel panorama del cinema contemporaneo. L’opera, suddivisa in tre episodi e realizzata come co-produzione tra Stati Uniti, Francia e Irlanda, si inserisce nella traiettoria autoriale del regista americano, mostratosi ancora una volta capace di intrecciare sensibilità internazionali ad una visione profondamente personale.
Il riconoscimento veneziano suggella, nonostante le non poche polemiche, un percorso critico che ha accompagnato fin dai primi annunci l’attesa attorno al film, distribuito in Italia da Lucky Red in data 24 dicembre 2025 e già destinato a diventare uno dei titoli simbolo della stagione cinematografica natalizia e non.
Ma svisceriamo assieme la pellicola che nel bene e nel male ha conquistato il Lido di Venezia.
Father Mother Sister Brother – Trama
Father Mother Sister Brother si articola in tre episodi distinti, legati tra loro dal filo sottile della memoria familiare. Nel primo, vediamo una coppia di fratelli, Jeff (Adam Driver) e Emily (Mayim Bialik, il cui nome, forse meno noto al grande pubblico, ha prestato la veste alla Amy di The Big Bang Theory) raggiungere il padre vedovo (interpretato da un grande Tom Waits), che vive isolato nei boschi.

Nel secondo episodio, una madre (Charlotte Rampling) accoglie le due figlie, Timothea (Cate Blanchett) e Lilith (Vicky Krieps), recatesi nell’abitazione di Dublino per ritrovarsi e condividere, come succede a mò di rituale una volta l’anno, il momento del tè, in un simpatico quadretto di vita quotidiana ritagliato a occasione per riannodare rapporti tesi e ormai lontani.
Infine, a Parigi, Skye (Indya Moore) atterra per incontrare il fratello gemello Billy (Luka Sabbat): insieme devono chiudere un cerchio doloroso, visitando per l’ultima volta l’appartamento in cui sono cresciuti e decidere cosa fare degli oggetti lasciati dai genitori, morti improvvisamente in un incidente aereo.
Pur diverse per ambientazione e tono, le tre storie si ritrovano intrecciate da un linguaggio tanto tenero quanto segreto: piccole immagini ricorrenti, simboli leggeri e quasi giocosi, che si ripresentano in ognuna delle vicende come segni di un destino comune.

Father Mother Sister Brother – Recensione
Father Mother Sister Brother è un film che si lascia attraversare con sorprendente naturalezza. Suddiviso in tre episodi distinti ma accomunati da una coerenza di sguardo, la pellicola conferma la lucidità registica di Jim Jarmusch, abile nel mantenere sempre a fuoco il cuore del racconto. L’autore non cede alla tentazione dell’ “insalatona” antologica, preferendo la qualità alla quantità, e concentrando il suo lavoro su tre frammenti netti e compatti, dove il discorso appare sempre chiaro e mai dispersivo.
Tra i tre episodi, il primo spicca per intensità e costruzione drammatica; il terzo, invece, più rarefatto e psicologico, rischierebbe di apparire meno incisivo se non fosse per le interpretazioni di altissimo livello, forse le più convincenti dell’intero film (seppur ogni episodio combatta al meglio delle proprie capacità in questo frangente di analisi). In generale, il cast regala prove solide e sfaccettate, capaci di dare corpo a personaggi fragili, contraddittori e profondamente umani.

Un raffinato mosaico
Il risultato è un’opera che si muove con la grazia di un pugno nascosto in una carezza: diretta e incisiva, ma al tempo stesso delicata, capace di accompagnare lo spettatore dentro dinamiche familiari fatte di imbarazzi, incomprensioni, fragilità e piccole rivelazioni. Sono storie che scorrono come acqua, fiabe moderne in cui ci si può facilmente specchiare. Un mosaico di istantanee intime che, pur nella loro apparente marginalità, restituiscono con intelligenza e sensibilità la complessità delle relazioni umane.
Jarmusch sceglie consapevolmente la via dell’umiltà, rinunciando a qualsiasi velleità monumentale. In un panorama culturale che insegue l’epica e la grandiosità, Father Mother Sister Brother appare come un metaforico sospiro di sollievo: un racconto modesto nel senso più alto del termine, intimo e simpatico, nato per essere ‘giusto’ più che ‘grande’. Tale assenza di ambizione non è amputabile a mero difetto dinnanzi al giudizio del grande schermo, bensì si erge a vera e propria dichiarazione d’intenti volta a collocare l’opera su un piano diverso rispetto a tante produzioni contemporanee.

Un omaggio al presente e al passato
Dal punto di vista estetico, il film si presenta in pura continuità rispetto alla scia delle opere più recenti del regista, grazie ad uno stile visivo minimale, quasi spoglio, caratterizzato dalla quasi totale assenza di colonna sonora e da un’impostazione visiva essenziale destinata ad amplificare la sensazione di sospensione e fragilità. È un approccio distante dall’immaginario jarmushiano tradizionale, a questo giro visivamente più pop che punk, ma anche in perfetta sintonia con le atmosfere intime che il cuore della narrazione intende evocare.
Non mancano, tuttavia, i richiami al passato: la struttura antologica e alcuni omaggi visivi richiamano in maniera evidente Coffee and Cigarettes, una delle opere più celebri dell’autore. A Venezia 82 Jarmusch recupera tale formula frammentaria per declinarla sul terreno dei legami familiari, con una coerenza tematica che funziona ma che rischia allo stesso tempo di apparire come un esercizio di stile già visto. È in questa mancanza di originalità che si annida il limite principale del film, con i titoli di coda chiamati quasi a suggerire di non aver aggiunto molto a una carriera autoriale ormai consolidata, nonostante il fattore estetico riprenda con raffinatezza il convincente percorso artistico degustato negli ultimi anni.
Pur con questo freno, Father Mother Sister Brother rimane un’opera capace di resistere per la sua grazia discreta: un album di istantanee che, senza clamore, riesce a raccontare ciò che di solito sfugge, lasciando emergere un’ intelligenza emotiva che appare veramente difficile da ignorare.
Father Mother Sister Brother – Un leone d’oro generoso?
Dopo aver giudicato il film in quanto prodotto cinematografico, è giusto sottolineare come la responsabilità affidatagli dal titolone assegnato dal Leone d’Oro rischi di innestare sul lungo termine non poche (oltre che a tratti non poco dannose) aspettative da parte del pubblico, assieme ad una pedante quanto necessaria parentesi in tal senso. Arriviamo dunque al punto.

Premiare un film volutamente così privo di ambizione rischia di apparire una scelta sproporzionata nella prova del tempo. Bisogna dirlo: a Jarmusch, autore di una carriera straordinaria ma troppo spesso sottovalutata, i riconoscimenti sono mancati, e per questo il premio assume a larghi tratti più il sapore di un tributo complessivo che quello di un riconoscimento specifico a quest’opera. Il regista stesso, in conferenza stampa, si è mostrato sorpreso, quasi a confermare che non si aspettava un traguardo del genere con questo titolo. E se è vero che il web ha ironizzato dicendo che avrebbe potuto rifiutarlo, è altrettanto vero che rifiutare un premio di tale calibro significherebbe mancare di rispetto al pubblico, ai colleghi e al festival stesso. Giusto, dunque, che lo accolga e lo esponga, perché Jim Jarmusch lo merita. Ma forse, non per questo film.
In conclusione
In un’edizione dalla caratura “normale”, un attestato di stima del genere sarebbe stato forse più giustificato, ma in un concorso del genere, in cui a spiccare sono stati titoli del livello qualitativo di Bugonia di Lanthimos, No Other Choice di Park Chan-Wook — da molti considerato il film migliore dell’intera Mostra, Frankestein di Guillermo del Toro, e sul fronte italiano La Grazia di Sorrentino o Il Maestro di Andrea Di Stefano, il livello complessivo si è alzato in maniera esponenziale a tal punto da portare a braccetto il pubblico internazionale a sollevare più di qualche polemica nei confronti della pregiata giuria della Biennale.
È stata un’annata che ha giovato a tutti, dall’industria al pubblico fino agli autori: basti pensare a Benny Safdie, autore sorto in sordina ma premiato e accolto con sincero entusiasmo per la regia del suo The Smashing Machine. Venezia ha brillato come poche volte e per questo sarebbe superfluo lasciarsi condizionare dalle premiazioni: al di là delle scelte istituzionali che, per quanto importanti, rischiano sempre di sovrapporsi al giudizio interpersonale e snaturarne l’essenza, quella di quest’anno è stata un’edizione che ha fatto bene al cinema, e tanto basta a conservarne l’entusiasmo.

