Famoso al grande pubblico per il ruolo di Aragorn nella celebre trilogia del Signore degli Anelli, Viggo Mortensen è stato sempre un attore piuttosto diversificato.
Ha spaziato dalle collaborazioni con grandi registi quali David Cronenberg (che ha anche un cameo in Falling) e Jane Campion (Ritratto di Signora) ai grandi successi (Green Book) a film più indie (Captain Fantastic).
Falling è un dramma famigliare che Mortensen ha dedicato ai fratelli Walter e Charles.
Il film è un ritratto di mille e antichi conflitti che una tipica famiglia americana degli anni ’60 si porta dentro e trasferisce ai figli e ai nipoti.
Falling trama
Willis (Lance Henriksen) è ormai affetto da demenza senile. Vivendo più nei suoi ricordi e nelle sue immaginazioni, fatica a trovare un contatto con il figlio John (Viggo Mortensen), che vive in California con il marito e la figlia.
L’impossibilità di stare al passo con i tempi e di mostrare affetto ai figli John e Sarah (Laura Linney) lo costringono a un destino desolato e freddo, come il rigido inverno nella sua fattoria del Connecticut.
Falling recensione
Mortensen scrive, dirige e recita in questo suo debutto dietro la macchina da presa, ma il protagonista è sicuramente Willis.
Willis è un personaggio di cui Mortensen fa di tutto per non farci provare empatia: è misogino, omofobo, razzista, quasi sull’orlo dell’alcolismo e violento.
E per quanto per metà del film lo spettatore sia dentro i ricordi e la prospettiva di questo vecchio burbero ed eccessivo, non vengono mai esplorate le ragioni del suo comportamento, nè viene mai cercato di giustificarle.
Il suo carattere, la sua incapacità di adattarsi ai tempi e ai figli sono delineate come un dato di fatto, che ormai niente e nessuno può modificare.
Come un animale in via di estinzione, tutto ciò che possono fare i suoi famigliare è aspettare una fine obbligata.
Nei film, solo chi cambia torna a vivere: chi resta lo stesso è destinato ad estinguersi.
E se il personaggio di Willis per quanto non abbia una evoluzione è talmente sopra le righe da essere quasi fin troppo ingombrante sullo schermo, tutti gli altri vengono lasciati un po’ nell’ombra.
Una monodimensionalità sembra pervadere tutti i personaggi: dalla moglie Gwen, tipica casalinga sottomessa degli anni ’60, al figlio John, la cui unica caratteristica è quella di essere estremamente paziente con il padre, fino a tutti i personaggi di contorno. E purtroppo la staticità è intrinseca nella storia stessa.
Per tutto il film i conflitti sono sempre gli stessi: non c’è evoluzione nei conflitti, non c’è soluzione dei conflitti e non ci sono misteri, o spiegazioni, o colpi di scene.
Willis è un padre orribile dall’inizio alla fine.
Detto ciò però, il film riesce a rappresentare le dinamiche famigliare con tratti più realistici e meno stereotipati del film medio americano.
La personalizzazione della scrittura di Mortensen è presente e molte discussioni appariranno ai più molto famigliari.
Per quanto infatti usi alcuni facili detonatori visti e rivisti (padre alcolizzato e tossico), le conversazioni prendono spesso pieghe più quotidiane e in molte scene si riesce ad avvertire qual è la tensione quotidiana dell’avere a che fare con un padre così problematico.
Altra nota positiva è sicuramente il ritratto della demenza senile.
Mortensen usa felici transizioni per rappresentare il mondo di visioni e di ricordi in cui, nella vita di tutti i giorni, quando è in aereo, o al ristorante o al bagno, Willis, indipendentemente dalla sua volontà, si ritrova catapultato.
E quelli sono gli unici momenti in cui l’empatia dello spettatore supera quella dei personaggi: lo stato di confusione di Willis per noi è spiegato, per gli altri è incomprensibile e una discreta seccatura.