“Per fare un film bisogna avere, oggi, molta follia e molto amore per il cinema. E questo è, probabilmente, l’unico aspetto positivo della faccenda”. Che di amore per il cinema ne avesse tanto, questo è fuori discussione. Ma per realizzare quello che Elio Petri ha fatto con la sua filmografia c’è stato bisogno di una grande follia lucida, e di una lettura critica formidabile dell’essere umano e del potere, con le sue menzogne, vigliaccherie e deliri di onnipotenza.
Elio Petri è nato a Roma il 29 gennaio 1929, in via dei Giubbonari. Con padre artigiano e madre negoziante, fin da piccolo Petri ha subito un’educazione di tipo repressiva, soprattutto dalla nonna. Questo senso di ribellione e di sfida al potere è figlia della sua adolescenza, vissuta nelle vite del centro di Roma scappando e vivendo liberamente per strada. Imparando fin da subito a toccare con mano la cruda realtà che lo circondava.
I primi passi
A quindici anni cominciò già la sua passione per il giornalismo e per il cinema, portandolo a scrivere sui bollettini delle associazioni cinematografiche e a frequentare circoli di cinema. Nel 1949, cominciò a scrivere su l’Unità e su Gioventù Nuova, come critico cinematografico.
Il percorso di Elio Petri inizia da autodidatta, come i registi della Nouvelle Vague che si formarono guardando tanti film e scrivendo sui Cahiers du Cinéma; anche Petri, parte dal basso, da critico, fondatore di cineclub, collaboratore di diverse sceneggiature e documentarista. Il suo apprendistato dietro la macchina da prese avviene con Pasquale De Santis nel film Roma ore 11 (1951), che prende spunto da un dossier scritto proprio dallo stesso Petri. Il sodalizio con De Santis prosegue negli anni successivi con la scrittura di altre sceneggiature, tra le quali Giorni d’amore (1954) e Uomini e lupi (1956).
Ma il vero esordio da regista è di qualche anno dopo con due documentari. Nasce un campione (1954), un racconto bucolico girato tra Sant’Arcangelo di Romagna e Igea marina, e I sette contadini (1957), altro corto documentaristico ideato in coppia con Cesare Zavattini. Attraverso lo sguardo documentaristico avviene il battesimo cinematografico di Elio Petri che dichiarerà tempo dopo: “Non mi piacciono i documentari. Mi fanno ridere. C’è il massimo della manipolazione, perché fingono di documentare quello che non è documentabile”.
Gli esordi cinematografici di Elio Petri
Tra finzione e reale, il primo film di Elio Petri risale al 1961, con L’assassino, dove sono già presenti parte dei temi che accompagneranno l’intera carriera del regista romano. Il protagonista del film è Nello Poletti (Marcello Mastroianni), è indiziato per un crimine che non ha commesso, ma, messo sotto torchio dalla polizia, sarà costretto ad ammettere altre colpe. In questo film viene messo in risalto una critica spietata ad una classe borghese che si rifugia solamente nel denaro e nel sesso, l’immoralità di cui viene accusato Poletti non è altro che il carattere spregiudicante di una società riversa nei suoi tornaconti morali, falsi ideali, fatti di prepotenza e sopraffazione.
Con un esordio del genere, Petri non poté che proseguire su questa scia critica verso l’Italia del boom, cavalcandone l’altra faccia della medaglia, con le sue contraddizioni e bassezze morali. D’altro canto, la direzione di quegli anni viaggia verso gli anni di piombo, su di una modernità incarnata da una generazione di giovani che vogliono finalmente prendersi i loro spazi, attraverso i costumi, mode e controculture.
Un paese che nella sostanza si sente lontana dall’emergenza della guerra, dove emergono parole come benessere, diritti, spensieratezza, a cui, tuttavia, non tutte le classi sociali possono accedervi. Da qui, i moti studenteschi, gli scontri di piazza, gli atenei in fiamme, i sequestri; in poche parole, un’Italia che cambia e, con essa, il suo cinema. E di cui Petri ne diventa uno straordinario narratore.
Il grande successo di pubblico porta Petri a realizzare in poco tempo altri due film: I giorni contati, con Salvo Randone nel ruolo di protagonista, unico grande ruolo nel corso della sua intera carriera; e, Il maestro di Vigevano, tratto dal libro di Lucio Mastronardi con Alberto Sordi nella parte principale.
Gli anni Sessanta di Elio Petri
Gli anni Sessanta proseguono con altri tre film coraggiosi e sfacciati, dove è possibile intravedere sempre una chiave di analisi politica e sociale. Nel 1965 realizza La decima vittima, un esperimento fantasy con echi al B-movie di Antonio Margheriti, non che primo film a colori di Petri. A fare da protagonista ancora una volta Marcello Mastroianni, questa volta, con un’acconciatura color biondo ossigenato, sullo sfondo di una caccia all’uomo autorizzata. Il glamour, i colori sgargianti, il design avveniristico del film, regalano allo spettatore un’esperienza cinematografica decisamente innovativa rispetto alle produzioni di quegli anni.
Poi colleziona due film in due anni, A ciascuno il suo nel 1967, e Un tranquillo posto di campagna, l’anno dopo. Con il primo, tratto dal romanzo di Leonardo Sciascia, Petri mette in scena una ingrovigliata storia di investigazione nella penisola siciliana, tra sguardi che indagano e personaggi criptici, si staglia un magnifico Gian Maria Volontè nei panni del professore Laurana, “un intellettuale politicamente e sessualmente incompetente”, come dirà lo stesso Petri (inaugurando un sodalizio che segnerà un punto di svolta nella carriera di entrambi). In Un tranquillo posto di campagna, invece, Petri si interroga del ruolo degli artisti nella società contemporanea, attraverso la storia di Leonardi Ferri (Franco Nero), pittore pop nevrotico che decide di allontanarsi dal caos urbano per rifugiarsi in un villino di campagna, dove scoprirà la misteriosa uccisione di una contessina ninfomane avvenuta anni prima.
La Trilogia della nevrosi
E poi nel 1970 una svolta decisiva, la pellicola che sbarcherà sulle coste atlantiche (e non solo), vincendo la statuetta come Miglior film straniero agli Oscar, e del Gran Prix della giuria del festival di Cannes, stiamo parlando del film Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Un successo di pubblico e di critica straordinari, scritto insieme allo sceneggiatore Ugo Pirro, il film sarà il primo capitolo della trilogia della nevrosi, insieme a La classe operaia va in paradiso (1971) e La proprietà non è più un furto (1973).
Il substrato culturale e politico di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto è rappresentato dalle tensioni degli anni di piombo tra la polizia e le istituzioni e i gruppi extraparlamentare. Due mondi contrapposti che si fanno la guerra a suon di bombe, intimidazioni, arresti di massa, depistaggi, stragi, atti sovversivi e, che Petri racconta attraverso il punto di vista de Il Dottore, il capo della Squadra Omicidi di Roma (Gian Maria Volontè).
Un uomo senza scrupoli e “rispettabile”, al vertice di un potere delirante e impunito, tale da indurlo a commettere un omicidio ai danni della sua amante che lo sta tradendo con uno studente contestatore, non curandosi nemmeno di nascondere le tracce del delitto. Da qui, il film si proietta su una spirale voluttuosa nei meandri della giustizia italiana, tra depistaggi grotteschi e allucinazioni violente. Una storia kafkiana, dove gli strumenti della legge si applicano alla rovescia, ribaltando il senso del lecito e dell’illecito. Ancora una volta, Petri, insieme alla musica di Ennio Morricone, la fotografia di Luigi Kuilliver, e il montaggio di Ruggero Mastroianni, riesce nel racconto più spietato e crudele di un’Italia inquisitoria e malata.
Todo Modo, la fine di un ciclo
Nel 1976, Petri, con il suo penultimo film, Todo Modo, raggiunge forse la perfezione stilistica e contenutistica con una pellicola che scava nei sotterfugi e nelle menzogne del potere politico. Tratto anche questo da un romanzo di Sciascia, Petri disintegra a modo suo l’immagine perbenista della Democrazia Cristiana, principale partito politico italiano dal dopoguerra in poi. Un gruppo di notabili democristiani si riunisce in una specie di convento, l’eremo di Zafred, per dedicarsi agli esercizi spirituali. Esercizi che sono finalizzati a recuperare un certo senso della morale che è andato perdendosi nelle ultime classi politiche, facendo soprattutto affidamento al recupero dei valori religiosi che avevano fatto grande il partito.
Le interpretazioni di Marcello Mastroianni e Gian Maria Volontè, rispettivamente nei panni di Don Gaetano e “M”, nient’altro che il leader democristiano Aldo Moro, sono forse tra le più intense nelle loro immense carriere cinematografiche. Da una parte un esponente del clero e anche un po’ demonio, dall’altra un grande dirigente che affida l’esistenza stessa del partito che senza l’appoggio ecclesiastico perderebbe il consenso delle grandi masse popolari di elettori.
In questo film, il potere viene smascherato attraverso un processo all’intenzione senza via di scampo; lo stesso processo che Pasolini tentò nel suo Salò o le 120 giornate di Sodoma ad una classe dirigente priva di scrupoli nell’esercizio delle sue funzioni, derubricato ad esigenze burocratiche e capitaliste pur consapevoli di un impoverimento culturale e sociale di un paese allo sbando.
Un cinema coraggioso e sincero
Con il suo cinema, Petri si è spinto laddove altri non hanno indugiato abbastanza, forse troppo timorosi – o magari lontani dall’impegno civile del regista romano – nella critica ai cattivi costumi italiani, alle sue idiosincrasie, alle cadute morali e al populismo facile e ingannevole. Rivisti oggi, i film di Petri, (ri)aprono un dibattito culturale sull’Italia di ieri e – ahimè – sull’Italia di oggi, stimolando il dialogo e un’autocritica quanto mai necessaria.
Elio Petri rimane uno dei più grandi cineasti italiani, coraggiosi, spietati e, soprattutto onesti nel racconto della propria opinione, mettendo sempre in primo piano l’importanza sociale del ruolo del cinema: “Il cinema non è per un’élite, ma per le masse. Parlare ad un’élite di intellettuali è come non parlare a nessuno. Non credo si possa fare una rivoluzione col cinema. Io credo in un processo dialettico che debba cominciare tra le grandi masse, attraverso i film e ogni altro mezzo possibile” (Elio Petri).