Con Dogtooth si può dire sia nata una stella. Quella di Yorgos Lanthimos, regista greco che si era già distinto positivamente come una delle maggiori speranze del cinema moderno europeo dietro la macchina da presa. Con il film del 2009, clamorosamente uscito in Italia soltanto nel 2020, Lanthimos ha fatto capire al mondo che l’originalità di scrittura può portare a realizzare opere indimenticabili.
Dogtooth vinse il premio Un Certain Regard al Festival di Cannes nel 2009, inaugurando una striscia di successi (tra la Croisette e Venezia) che ha praticamente visto il regista greco vincere qualche premio con ogni suo film negli anni successivi (pur non avendo ancora sollevato né la Palma né il Leone d’oro). Insomma, Lanthimos è forse il regista europeo più costante: da dieci anni a questa parte non sbaglia un colpo e cresce costantemente di film in film, come dimostra il successo planetario del suo ultimo lavoro, La Favorita.
Se con le ultime tre pellicole (The Lobster, Il sacrificio del cervo sacro e La Favorita appunto) Lanthimos ha abbandonato la sua Grecia (nel contesto geografico, non certamente nei temi) per realizzare opere dal respiro più internazionale, ambientate tra la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, con Dogtooth siamo ancora di fronte al cantore di una civiltà perduta che si ostina a volersi ritrovare.
Dogtooth trama
Una coppia di genitori greci, ha cresciuto i tre figli (due femmine e un maschio) nella più totale reclusione, all’interno della loro splendida villa, isolata dal resto del mondo. Solo il padre esce di casa la mattina per andare al lavoro, mentre madre e figli passano le giornate divisi tra studio e gare per conquistarsi premi e piccoli vantaggi.
I ragazzi, ormai adulti, non sanno nulla del mondo di fuori: non hanno nomi e non sanno nemmeno di doverli avere; pensano che gli aerei siano giocattoli radiocomandati che ogni tanto precipitano nel loro giardino; temono i gatti come le creature più feroci del regno animale; non hanno idea che esistano telefoni ecc. La loro è un’esistenza bestiale, fatta di una competizione a tratti violenta e di un’insicurezza completamente inconsapevole, ma profondamente dannosa. La scelta dei genitori sembra dettata dalla volontà di proteggerli dal mondo, ma di fatto ottiene l’effetto diametralmente opposto.
L’assurdo equilibrio inizia a vacillare quando la figlia più grande comincia a maturare una forte curiosità, fagocitata anche dal personaggio di Christina, la donna che il padre paga per sfogare le pulsioni sessuali del figlio, in un thriller grottesco e per stomaci forti.
Dogtooth recensione
Ancora una volta, per parlare del film del regista greco occorre concentrarsi sui suoi personaggi, veri e propri caleidoscopi psicologici. I tre figli sono molto diversi l’uno dall’altro. La figlia più grande sembra fin dall’inizio quella meno convinta della realtà in cui i suoi l’hanno condannata a vivere. Non riesce mai a comprendere che esiste un mondo vero al di fuori della sua villa, ma è come se capisse che qualcosa nella sua vita è inautentico e artificioso. La stessa cosa non si può dire dei suoi fratelli, il maschio totalmente ossequioso nei confronti dei genitori (e per questo spesso detestabile), la femmina miope e poco aperta al pensiero razionale. Fin da subito la sorella maggiore incarna un certo ideale di ribellione allo status quo, che si sviluppa parallelamente al film e che trova il suo mecenate nella figura di Christina.
La donna da subito affascina la ragazza, già per il semplice fatto che viene dall’esterno, arrivando, bendata, in automobile con suo padre. La guarda con una curiosità sterile, perché non è in grado di capire nemmeno cosa l’affascini in lei. Prova a fare conversazione ma anche da quel punto di vista delude, perché non può fare discorsi seri o aderenti alla realtà effettiva. La stessa Christina, arriva a comprenderne il disagio e cerca di aiutarla, diventando in qualche modo il suo legame segreto con la normalità.
Quello che appare (ed effettivamente è) uno sopruso nei suoi confronti (la donna le offre doni in cambio di favori sessuali non soddisfatti dal fratello) di fatto non diventa mai totalmente tale, un po’ perché la ragazza non è consapevole di quello che sta facendo, di cosa significhino quelle azioni. Un po’ perché il dono, per quanto banale possa sembrare allo spettatore, diventa un autentico strumento di emancipazione per la protagonista. Un cerchietto fosforescente o una videocassetta porno, possono diventare delle vere e proprie armi rivoluzionarie nel contesto in cui i tre giovani protagonisti sono confinati. E infatti la maggiore cresce. Non fisicamente, ma moralmente: si dà un nome (Bruce) e si pone come obbiettivo di scappare dalla casa. Insomma, è l’unica rivoluzionaria in un mondo di integrati.
Dogtooth assume ben presto i connotati di film politico. Diventa un’efficacissima allegoria contro ogni autoritarismo o dittatura, regimi che la patria del regista, come la nostra, ha conosciuto fin troppo bene, e che quindi non possono che colpire il pubblico nelle profondità più intime dell’animo. Il padre non è semplicemente un dittatore, ma è il concetto incarnato della Dittatura.
Di fronte ad essa si può reagire in tre modi: ci si può adattare, divinizzando il reggente (come fa il figlio maschio), si può rimanere indifferenti ad esso, cercando di evitare il più possibile i guai (come fa la figlia più piccola, non a caso la più infantile dei tre), oppure ci si può ribellare, cercando strade parallele in modo eroico e coraggioso (come fa Bruce). Il suo nome, più che semplice titolo di riconoscimento individuale, diventa quasi un epiteto di battaglia, come i soprannomi che, in ogni luogo e tempo, si danno tra di loro i partigiani. È un modo per infondersi coraggio e rinascere, dimenticare la propria persona e diventare qualcun altro.
A chiudere il cerchio di questa lettura politica dell’opera seconda di Lanthimos (dopo Kinetta) ci pensa la figura del padre-dittatore. L’uomo è caratterizzato dai più classici ideali dittatoriali che si sono sviluppati un po’ in tutta Europa nel corso del Novecento. Innanzi tutto è un patriarca, ma nel senso deteriore del termine: si erge ad eroe, dichiarando suo dovere morale il “rischio” di uscire di casa per provvedere alla famiglia, e pretende di essere visto come tale. Ha un atteggiamento misogino, oltre che nei confronti della moglie, per larghi tratti consenziente rispetto a un tale trattamento, anche verso le figlie, le quali possono tranquillamente vivere come delle monache, mentre il figlio deve sfogare i suoi impulsi sessuali (con una donna-oggetto, ovviamente). Inoltre, è pronto a reprimere sul nascere, e con violenza, ogni forma di dissenso e di emancipazione. Le punizioni, oltretutto, sono sadicamente ironiche; così se la figlia maggiore guarda una videocassetta, lui la punisce picchiandola con la stessa videocassetta, se la causa dei problemi nella sua famiglia ha un nome preciso, lui va a casa di questo nome a “saldare i conti”, e così via. Anche l’idea di dare una parvenza di libertà ai propri sottoposti (la regola dice che i figli potranno uscire dalla villa solo quando perderanno un canino, dente permanente per antonomasia) è tipica di un qualsiasi dittatore contemporaneo.
La riflessione sulla libertà deve molta della sua forza alla messa in scena di Lanthimos. Dogtooth, prima di tutto, non rinuncia mai all’ironia che ormai i fan del regista greco hanno imparato a conoscere. Lo humour del film è sempre nerissimo: si sorride di tenerezza, arrivando in certi casi a ridere platealmente, nei momenti in cui, paradossalmente, il film fa più male, colpendo lo spettatore come un pugno nello stomaco. Di fronte alle assurde nefandezze che si vedono sullo schermo, che siano esse causate direttamente dai genitori (la già citata scena della videocassetta) o che vedano protagonisti i figli nella loro sfera “privata”, non possiamo voltare lo sguardo perché Lanthimos, per questo film come per molti altri, non prende in considerazione il fuori campo. Tutto deve rimanere sullo schermo, dalle scene di nudo (che rendono i protagonisti quanto mai simili a bestie) alle viscere di un animale domestico, dalle pugnalate tra consanguinei alle umiliazioni di genitori verso i figli.
Lo spettatore assiste ad una farsa senza che di essa venga omesso il benché minimo dettaglio. Si racconta una storia costruita interamente sulla menzogna con lo stesso tono con cui verrebbe affrontata la più vera delle vicende. La colonna sonora è l’emblema di tutto ciò. Non compaiono musiche se non quelle che i protagonisti fanno partire dall’autoradio o dal giradischi (soltanto in un paio di occasioni). Una delle canzoni che si sentono è Fly me to the moon di Frank Sinatra, presentata come la voce del nonno dei ragazzi che, tramite la “traduzione” simultanea del padre, li incita a rispettare i loro genitori e il contesto nel quale vivono. Insomma, uno dei pezzi più onirici del già di per sé fantasmagorico interprete americano, diventa così il più banale dei lavaggi del cervello che la consolidata dittatura pratica nei confronti dei suoi oppressi.
Dramma, brividi, satira, pessimismo, Dogtooth è tutto questo e molto di più. Un’opera che fa male ma che al contempo attira lo spettatore, che, come il più volgare dei guardoni, non può fare a meno di contemplare, impotente ma nemmeno volenteroso di interferire, una tragedia moderna, senza dubbio la migliore che Lanthimos (insieme al co-sceneggiatore Efthymis Filippou) ha architettato finora. Il primo passo (ma anche grande balzo) del più efficace erede di Eschilo, Sofocle ed Euripide.