La crisi Disney è un concetto difficile da digerire. Si tratta di due parole che, unite, assumono un significato quasi ossimorico. Eppure, sembra che Bob Iger (CEO del colosso statunitense) stia passando un periodo tra i peggiori della sua carriera lavorativa.
Nel 2020 aveva lasciato le redini dell’azienda a Bob Chapek e lo stato delle casse era più che buono. Nel novembre dello scorso anno è stato invece richiamato d’urgenza per sopperire a buchi di bilancio che sono comparsi qua e la, palesandosi come avvisaglie di qualcosa di più grosso.
La crisi della Disney è certificata a partire dal marzo del 2021, fase in cui ogni azione della casa di produzione valeva ben 191 dollari. Successivamente, arrivando ai giorni d’oggi, queste azioni sono calate di diversi punti, attestandosi su un valore di 78 (meno della metà).
Gli azionisti non hanno reagito con pacatezza ed ecco che si è arrivati al secondo mandato di Iger. Una seconda fase che non sta apportando benefici.
Il nuovo/vecchio CEO aveva fatto diverse promesse, tentando di implementare un vero e proprio piano di ristrutturazione aziendale. Si vocifera di tagli di spesa per un ammontare complessivo di 3 miliardi di dollari.
Senza contare che, fiore all’occhiello del suo progetto, era il piano licenziamenti (addirittura 7.000 teste sembrano essere già saltate).
Nonostante ciò, le cose non stanno migliorando e la crisi Disney non è alle porte, è ormai un dato di fatto (secondo le stime di Bloomberg).
Crisi Disney – Quali le ragioni?
La crisi Disney è imputabile innanzitutto a progetti costosissimi ma poco lungimiranti. Duole il cuore ad annoverare tra i flop dell’anno Indiana Jones e il Quadrante del Destino, Ant-Man and The Wasp: Quantumania e tutti i remake dei grandi classici (La Sirenetta ad esempio).
L’impianto artistico sembra essere partito per la tangente con tante idee, ma anche molta confusione. Il risultato è un impianto visivo e contenutistico poco lungimirante.
Il Box Office ha inoltre confermato quanto anzidetto. La prossima spiaggia da solcare è per Bob Iger la vendita di quote a televisioni private o generaliste. Insomma, vendere una parte del sogno a realtà televisive quotidiane, molto reali e poco fantastiche.
La crisi Disney si riversa quindi in una pressoché totale perita del potere dell’illusione o, per meglio dire, del fattore sogno.
Una triste coincidenza è poi la concomitanza di questo crollo verticale con i cento anni dalla nascita dell’azienda. Fa sgranare gli occhi effettivamente vedere una piattaforma (Disney Plus) progetti legati a diversi mondi intrattenitivi (Star Wars, Marvel e chi più ne ha ne metta).
La realtà però appare più assurda un momento prima della sua concretizzazione.