Dopo otto anni dal suo ultimo film, Maps to the stars (2014), e avviandosi verso il sessantennale del suo inizio di carriera, David Cronenberg torna sul grande schermo con l’attesissimo Crimes of the future, di cui molto si è parlato negli scorsi mesi. Presentato in anteprima al Festival di Cannes di quest’anno, il lungometraggio – un thriller intriso del body horror tanto caro al regista, della durata totale di 107 minuti – incarna accuratamente lo spirito dei pilastri concettuali e stilistici del regista. La pellicola, peraltro, vanta un cast di prim’ordine tra cui spiccano Viggo Mortensen (ormai collaboratore consolidato di Cronenberg, dopo le esperienze di A dangerous method e La promessa dell’assassino), Léa Seydoux e Kristen Stewart.
La trama del film
In uno scenario futuristico non cronologicamente collocato, l’artista Saul Tenser (Viggo Mortensen) e la sua partner Caprice (Léa Seydoux) vivono in funzione delle loro complesse performance. In un mondo in cui il dolore fisico si è fatto pressoché inesistente e l’alterazione biologica autonoma degli organismi pare essere all’ordine del giorno, infatti, i due hanno fatto della corporalità (e della sua messa in mostra e distruzione) il fulcro attorno cui ruota la loro arte. Data l’innata tendenza di Saul a sviluppare nuovi organi, dunque, nel corso delle loro performance – rese possibili da modernissimi macchinari ideati per le autopsie ma manualmente modificati dai due performer – Caprice procede ad eliminare, di fronte ad un pubblico suggestionato, suddetti organi nel corso di un’intensa esibizione carica di pathos.
Per tutelare l’inconsueto statuto biologico di Saul, la coppia di artisti si reca presso il National Organ Registry, volto a tutelare, catalogare e conservare i nuovi organi. I funzionari dell’ente, Wippet e Timlin (Kristen Stewart) prendono in carico il caso del performer. I due – in particolar modo la giovane – iniziano così ad incuriosirsi alle esibizioni dei due artisti e a seguirle con interesse, manifestandosi sempre più spesso all’attenzione degli artisti. Questi ultimi, al contempo, a causa di svariate vicissitudini restano implicati in una complessa rete di indagine intessuta dalla polizia governativa. Quando però si pone ai due performer la possibilità di applicare il proprio metodo artistico sul corpo – unico nel suo genere – di un bambino, la coppia sarà costretta a fronteggiare molteplici interrogativi di natura etica, creativa, politica e ideologica.
Crimes of the future – Il ritorno di Cronenberg in tutto il suo personalissimo stile registico e autoriale
Dopo una parentesi di inoperatività (quantomeno apparente) della durata di circa otto anni, l’ormai quasi settantenne David Cronenberg torna in sede di sceneggiatura prima e dietro alla macchina da presa poi, restando però graniticamente fedele al personalissimo stile che lo ha reso celebre nel corso degli anni. L’autore abbozza così una cornice narrativa indubbiamente accattivante e peculiare quale risulta essere quella di Crimes of the future, un setup contestuale ben ideato e costruito, solido e compatto, che invoglia lo spettatore ad approcciarvisi sin dal primo minuto del film. Un contesto polarizzato tra la componente meccanico-scientifica delle più moderne tecnologie e la più cruda corporalità umana, che forse a causa della sempre efficace capacità attrattiva dell’ignoto sembra risultare senza troppe difficoltà estremamente magnetica agli occhi del pubblico.
Nonostante la crudezza e la brutalità che troneggiano sin dal primo istante sulla componente tematica del film, la pellicola stessa sembra essere permeata da un’irreprensibile cura estetica (che in un secondo momento pare trovare sfogo, anche sul piano narrativo, nell’ascendente artistico-performativo dei due protagonisti). L’estetica si fa così onnipresente, sfociando in modo marcatamente visibile sulla componente della fotografia del film ma in modo altrettanto consistente, per quanto forse meno immediato, nella millimetrica costruzione dell’immagine, nel curatissimo livello iconico dell’inquadratura, sempre magistralmente studiato.
Nella sua interezza la pellicola si fa manifesto della poetica cronenberghiana del body horror. La corporalità viene portata in questo modo alle sue soluzioni più estreme: tutto è orrorifica atrocità, e al contempo tutto è carne, nella doppia accezione di fisico e carnale. La componente corporea viene inoltre implicitamente amplificata dall’elemento della performance, o più precisamente della body art, che già da sé è capace di instaurare una rete di richiami creativi, artistici e concettuali estremamente ampia, i quali finiscono per investire il corpus operistico di performer più noti (salta alla mente dal primo istante la fisicità delle esibizioni di Marina Abramovic) ma anche di altri certamente altrettanto rivoluzionari (il riferimento in parte è senza dubbio al corpus performativo di Joseph Beuys) o di interi movimenti artistici, in primis quello passato alla storia come Fluxus.
I riferimenti sono molteplici, più o meno diretti, ma tutti inscindibilmente connessi ad un tipo di performance cruda, sofferta, una modalità performativa viscerale. Ed è forse proprio questo che, primariamente, Crimes of the future porta sulla scena: una manifestazione (forse esasperata, ma senz’altro densa di significato) del dualismo tra eros e thanatos, in valore assoluto; una trasposizione cinematografica della polarizzazione – e insieme dell’imprescindibile legame – che si instaura tra piacere e dolore, tra estetica e orrore, tra creazione artistica e distruzione corporea.
Ciò che lascia forse più perplessi, dunque, è come la potenza dello spunto narrativo e della cornice situazionale di Crimes of the future non si traducano in una trama principale altrettanto impattante o accattivante. Se il contesto è magnetico, lo storyline principale finisce per esaurirsi in una linearità a tratti comunque confusa ma di certo paradossalmente insignificante rispetto al mondo finzionale all’interno di cui si inscrive.
Per contro, la pellicola beneficia senza dubbio della buona selezione di capaci interpreti che abitano il territorio filmico. A fronte del talento consolidato di Viggo Mortensen trovano spazio le più giovani ma altrettanto affermate Seydoux e Stewart, che danno prova di riuscire a condividere la scena con il collega senza difficoltà alcuna, padroneggiando buone performance. Curiosamente, tutti gli interpreti si prestano ad una modalità interpretativa massicciamente marcata, eccessiva, quasi sopra le righe – se non addirittura tendenti, come nel caso di Stewart ad un vettore macchiettistico che sembra sistematicamente rischiare di sfociare nell’auto-parodia – che finisce però per non stonare affatto se messo in relazione all’organicità del film stesso, risultando curiosamente efficace e funzionale.