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Bad education

The way to hell is paved with good intentions, ossia, la strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni: questo sembra un buon sottotitolo per Bad Education, il docu-dramma di ironia felpata firmato da Cory Finley in cui, partendo da un articolo di Robert Kolker intitolato The Bad Superintendent, aggiungendo l’esperienza personale da ex-studente dell’istituto in questione dello sceneggiatore Mike Makowsky, si ricostruisce la più grande frode ai danni di una prestigiosa scuola pubblica americana mai venuta alla luce.

Si tratta della Roslyn High School, a Long Island: il rapporto tra studenti diplomati ed ammessi ai più importanti college U.S.A. è altissimo tanto da classificarla tra i primi cinque migliori istituti del paese, punteggio che la colloca tra le ambite eccellenze dell’istruzione, in competizione continua per migliorarsi ed arrivare al podio. A guidare la rappresentanza ci sono Frank Tassone (Hugh Jackman) e Pam Gluckin (Allison Janney), coppia di amici e di colleghi affiatatissima e zelante.

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Affabili con tutti, premurosi, disponibili, il duo delle meraviglie dietro la rispettiva sorridente facciata di guadagnato merito su campo, è in realtà responsabile di un’appropriazione indebita dalle enormi proporzioni, ammontante ad undici milioni di dollari, la più ingente cifra distratta dalle casse di una scuola per fini personali. Insospettabilmente sottratto tramite scambi di carte di credito ed emissione di fatture in capo a società inventate, questo denaro è stato deviato in modo sistematico per dieci anni dalla sua originaria funzione in favore del soddisfacimento progressivo di interessi del tutto personali, quali ristrutturazione di case e ville, acquisto di gioielli, auto di lusso, viaggi all’estero, mantenimento di un tenore di vita sopra la media borghese di appartenenza (questo per Pam), e cosmesi, dietologi, bei vestiti, chirurghi estetici, appartamenti comprati in altre città per il convivente e l’amante (questo per Frank).

A smascherarli Rachel (Geraldine Viswanathan), una studentessa, ultima arrivata nel club di giornalismo, che sogna la professione e che, incaricata di compilare una sviolinata verso i piani alti amministrativi, si ritrova ad avere tra le mani più di un semplice articolo di routine tanto da decidere di rischiare ed andare a fondo della vicenda. Dal titolo di un giornalino liceale, alle stampe nazionali, fino alla cattura e alla condanna della manager e del sovraintendente corrotti.

Prodotto dalla HBO, presentato al Toronto International Film Festival 2019, vincitore degli Emmy Awards 2020 come miglior Tv-Movie, approdato su Sky e disponibile on demand su Now tv, Bad Education è il secondo lavoro di Finley, e del suo immaginario riprende figure contaminate, macchiate da una colpa che non si vede ma c’è, qualcosa che non si riesce a cancellare e, presto o tardi, riaffiora nella sua crudezza. Prodotto curato, a suo modo tradizionale, piacevolmente non inquadrabile nella lunga prima metà, né nel genere reportage d’inchiesta, né in un legal teen-drama, né in un dramma adulto, si declina a conti fatti come un’inquieta biografia dell’uomo medio di successo imposto dai canoni degli States, che inizia sorridendo e termina con un ghigno.

Il contesto è fondamentale e significativo: si sceglie di illuminare uno scandalo economico-scolastico che molto ha colpito la popolazione locale, nella sua parte più vulnerabile, i giovani e l’istruzione, e che ha avuto l’effetto di mutare per sempre i rapporti tra genitori ed insegnanti: la corruzione aggredisce anche le scuole, persino le migliori, non è una piaga esclusiva degli apparati statali e delle grandi società. D’altronde la scuola in America è gestita sempre più come un’impresa: deve portare a casa risultati, deve emergere, deve distinguersi, deve costruirsi e mantenersi un nome, un rispetto.

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In questo caso il denaro rubato proviene dalle tasche di tutti i contribuenti, in particolare da quelle dei genitori degli studenti, persone che si sono sentite, come i propri figli iscritti alla Roslyn, traditi da chi doveva proteggerli, espropriati da chi aveva il compito di renderli migliori, diseducati da chi doveva insegnare loro valori positivi. Così restano sospettosi verso l’istituzione, comprensibilmente guardinghi nei confronti di insegnanti e personale, non più sicuri di interfacciarsi con chi ha cuore i loro stessi interessi.

C’è del tragico intrinseco e della verve sommessa da commedia nera in tutta la narrazione; in essa sembra che i ruoli dei cattivi siano invertiti: da una parte i truffati (genitori, personale, persino soci fondatori) appaiono sfiancanti appendici, immaturi, egoisti, incapaci di autonoma iniziativa, dall’altra i due manager tuttofare, responsabili e preparati, in grado di gestire ogni problema ai massimi livelli, senza far mancare nulla a nessuno. Così si moltiplicano i punti di vista: quello di chi sbaglia e quello di chi subisce lo sbaglio, e si restituisce un ritratto di Pam e, soprattutto di Frank, amabilissimo. Sono entrambi personalità carismatiche e brillanti, complici su tutto, due vincenti e luminosi dirigenti impegnati, capaci di dare ascolto a chiunque, di incoraggiare anche il più insicuro dei ragazzi o il più ansioso dei genitori, dimostrando capacità pedagogiche ed abilità tattiche di alto e fortunato professionismo. Chi non vorrebbe averli nella propria squadra?

Eppure la loro è una facciata, man mano il disegno perfetto si incrina, si distorce, perde pezzi in modo inquietante, si complica frammentandosi, si altera in modo tale da non essere più riconciliabile, sfociando in un inevitabile epilogo colmo di una tristezza epica e alienante.

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Dalle stelle alle stalle, va in scena la brillante e drammatica caduta degli dei, la rovina sintomo di un paese malato di successo ed aspettative, che fa merce di tutto e su tutto, senza porsi limiti e che non conosce una concreta parità di valore tra le persone, anzi la nega, così come di fatto instaura la dittatura del privilegio e difetta di uguaglianza, privatizzando beni e servizi essenziali, tra cui l’istruzione universitaria, escludendo così una parte della popolazione da tutti gli strumenti necessari a migliorare se stessa e la qualità della vita.

Epigoni perfetti di questa mentalità, quasi incolpevoli suoi arti, sono proprio Frank e Pam, prototipi dell’uomo e della donna in carriera, i borghesi emancipati, ignari dei limiti, drogati da competizione, loro non chiedono, ma a loro si deve chiedere, stregati dalla forza di persuasione, dal potere del successo, dal magnetismo che guadagnano sugli altri. Sono loro l’ennesima prova di un individualismo patologico che isola e disprezza il singolo, lasciandolo di fronte alle responsabilità personali e all’implacabile giudizio collettivo e ciò vale sia che si abbiano cinquant’anni sia che se ne abbiano diciassette.

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Pam e Frank devono incarnare i vincitori, i primi tra i pares, gli appetibili, le giuste facce da sfoggiare di fronte ai propri avversari, stato compreso: nel loro bagaglio storie comuni di insegnanti che hanno affossato o colpevolizzato alunni inermi, genitori invasivi, diversità intime soffocate dal perbenismo, ansie familiari, disfatte sentimentali, carenza di autostima e di stima altrui in mancanza di una solida posizione. Lo dimostrano le lacrime di Pam di fronte alla sua famiglia, all’indomani dello smascheramento e la confessione di Frank davanti al suo amante, un attimo prima di essere arrestato.

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Finely disegna dei personaggi “sognatori nel modo sbagliato”, “sognatori fuori dalle regole”: Pam desidera una vita che non può permettersi, Frank un’accettazione che troppo a lungo ha sospirato; eppure in entrambi i casi lo spettatore parteggia per i truffatori, non perché siano abili delinquenti, dannati e affascinanti o miticamente sfrontati, ma per via di un’evidente e costante intento di migliorare e modificare l’ambiente che li circonda, sfuggire ad un senso di vuoto, o di disagio camuffato, di perdita di senso, pur essendo nel pieno del loro reato. Dice Frank rivolto a Rachel “Il sistema non è perfetto. Ma funziona. Funziona”; questo lo tiene a galla, il risultato, nonostante la pressione che lo circonda, conta la schiavitù del risultato.

Jackman sorprende per la capacità di tenitura con cui maschera fragilità e dubbi, quasi fosse un idolo sulla via del sacrificio più che un truffatore; la Janney, così come ci aveva ben abituato da I, Tonya, non delude per presenza scenica e di spirito con commovente lucidità. Si fa notare l’accompagnamento musicale che vira dal silenzio, alle note di un arco somministrato a gocce sornioni, fino ad arrivare a canzoni pop iperpopolari che cercano di ricordare l’alveo scolastico in cui nasce la storia. L’accento è sui colpevoli più che sui ragazzi scopritori della verità: questo rende più esposti e vulnerabili gli adulti, persi tra il dio denaro e le domande degli adolescenti, caduti sotto le loro stesse trame, vittime predesignate di un sacrificio inevitabile, che, pur sottovoce, può dirsi rappresentativo del fallimento di un’intera categoria sociale e del suo stile di vita.

PANORAMICA RECENSIONE

Regia
Soggetto e Sceneggiatura
Interpretazioni
Emozioni

SOMMARIO

Appropriazione indebita di 11 milioni di dollari in una scuola pubblica eccellente: responsabili il sovraintendente e la sua manager, colleghi efficienti, ammirati ed affiatati. A smascherarli l'articolo di un giornale liceale. Storia vera della più grande frode al sistema scolastico americano, parabola di una borghesia malata di successo, soffocata dal perbenismo, assuefatta al "bigger than life" e sola. Ironia felpata e commedia nera per una biografia inquieta dal notevole cast. Emmy Awards 2020 come miglior Tv-Movie.
Pyndaro
Pyndaro
Cosa so fare: osservare, immaginare, collegare, girare l’angolo  Cosa non so fare: smettere di scrivere  Cosa mangio: interpunzioni e tutta l’arte in genere  Cosa amo: i quadri che non cerchiano, e viceversa.  Cosa penso: il cinema gioca con le immagini; io con le parole. Dovevamo incontrarci prima o poi.

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