Tra i più grandi maestri del cinema scandinavo, Aki Kaurismäki nasce il 4 aprile 1957 a Orimattila, una cittadina nel sud della Finlandia. Regista, sceneggiatore e produttore cinematografico, si è sempre distinto per il suo stile minimal e retrò, capace di creare un universi sospesi tra poesia e realismo, popolati da personaggi malinconici e irresistibilmente autentici. Storie di persone comuni, di outsiders immersi in una società ostile, in continua lotta per la sopravvivenza e sempre alla ricerca di un futuro migliore.
Dialoghi asciutti, sorrisi amari, inquadrature statiche, ambientazioni spoglie e un humor secco. Questi gli ingredienti del linguaggio cinematografico di Kaurismäki che strizza l’occhio al cinema muto e alla Nouvelle Vague per la quale il regista non ha mai smesso di mostrare il suo amore. (non a caso la sua casa di produzione si chiama Villa Alpha in onore Alphaville di Jean-Luc Godard). Con il suo cinema Kaurismäki esplora una Finlandia quasi sempre grigia e malinconica, accennando una critica sociale ironica e mai didascalica, con uno sguardo profondamente umano e sincero che lo ha reso un unicum nel panorama cinematografico contemporaneo.
Leningrad Cowboys Go America (1989)
La storia dei Leningrad Cowboys, una bizzarra rock band siberiana che decide di intraprende un viaggio in America alla ricerca del successo. Ma quello che all’inizio è solo un sogno sembra destinato a rimanere tale. La scena americana si rivela un mix di locali squallidi, porte sbattute in faccia e situazioni tragicomiche. Leningrad Cowboys Go America è forse l’opera più spassosa e al tempo stesso dissacrante di Kaurismäki, che si muove tra stereotipi, incomprensioni culturali e situazioni grottesche. Un road movie irriverente che sgretola il sogno americano, con una buona dose di umorismo e satira.
Uno degli aspetti più memorabili è di certo il look eccentrico della band con il ciuffo esagerato come marchio di fabbrica. Infatti Igor, uno dei componenti, a causa della sua calvizie viene deriso e isolato perché il suo ciuffo non riesce a raggiungere i parametri del gruppo. Altrettanto memorabile la colonna sonora, un mix di rock and roll e canti tradizionali russi che incarna l’anima stravagante di questa commedia atipica.
Ho affittato un killer (1990)
Con Ho affittato un killer (clicca qui per la recensione) Kaurismäki ci porta nella Londra degli anni ’80. Una commedia noir con l’iconico Jean-Pierre Léaud, primo protagonista non finlandese dei suoi film, nei panni Henri Boulanger. Un uomo profondamente triste per il recente licenziamento che, dopo due tentativi di suicidio falliti, decide di affittare un assassino per farsi uccidere. Si reca quindi da una stramba agenzia di killer ma poco dopo conosce Margaret e se ne innamora all’istante. Cambia idea, decide di voler vivere e inizia così una fuga dall’ignoto. Henri infatti non conosce il suo assassino che, nel frattempo, scopre di essere malato di cancro e, visto che gli rimane poco tempo da vivere, ha fretta di portare a termine il suo incarico.
Il killer riesce a intrappolare il protagonista in un cimitero desolato. Sembra fatta, ma quando Henri gli confessa di non voler più morire, le cose non vanno come previsto. Tra peripezie e colpi di scena Ho affittato un killer è un’avventura bizzarra, a tratti surreale, che riesce a combinare comicità e desolazione emotiva. Un’opera asciutta e ironica ricoperta da un’aura malinconica tipica del cinema di Kaurismäki, che qui appare in un sorprendente cameo nel ruolo di un venditore ambulante.
Vita da bohème (1992)
Dopo due anni c’è un’altra delle opere più significative del regista, ma questa volta ci troviamo in una Parigi decadente ma comunque magnetica. Con il soggetto liberamente tratto dal romanzo al romanzo Scènes de la vie de bohème di Henri Murger, Vita da bohème cattura la dimensione sognante e precaria di chi dedica la propria vita all’arte. Segue le vite di tre artisti squattrinati alle prese con gli ostacoli della quotidianità ma convinti nel perseguire il proprio sogno: vivere della propria passione. Un poeta (André Wilms), un musicista (Kari Väänänen) e un pittore (Matti Pellonpää) che si innamora di una donna, Mimi e decide di riordinare la sua vita per costruire un futuro con la sua amata.
Il fascino delle strade parigine e i personaggi genuini più che mai rendono questo film un omaggio alla vita bohémien. Uno stile di vita dedito all’arte che, alla stabilità finanziaria, predilige l’espressione personale, la ricerca della propria identità e la libertà dalle convenzioni sociali. E Kaurismäki ce la racconta attraverso dinamiche quotidiane riconoscibili da chiunque abbia mai inseguito un sogno, attraverso un tono ironico e un bianco e nero vibrante. Vita da bohème è un invito a trovare la bellezza anche nei momenti più difficili e in situazioni paradossali di una vita imperfetta.
Nuvole in viaggio (1996)
Il suo undicesimo lungometraggio che apre la Trilogia della Finlandia seguito da L’uomo senza passato (2002) e Le luci della sera (2006). Nuvole in viaggio racconta la storia di una coppia, Lauri (Kari Väänänen) e Ilona interpretata da Kati Outinen, protagonista di molte altre opere del regista. La loro vita tranquilla cambia radicalmente quando entrambi rimangono disoccupati. Lei perde il suo impiego da capocameriera a causa del fallimento del ristorante. Lui quello da conducente di tram pescando dal mazzo di carte un numero più basso rispetto ai suoi colleghi (una scena surreale che esprime tutta la precarietà del mondo del lavoro). I due si ritrovano quindi a vagare tra agenzie di collocamento, di giorno, e bar durante la notte dove tentano di consolarsi con un bicchiere, fino al tentativo disperato di andare al casinò.
Un giorno Llona incrocia per caso l’ex proprietaria del ristorante in cui ha lavorato. Questo incontro è per lei una sorta di rinascita: riunisce tutti gli ex-colleghi e decide di aprire il proprio locale. Arrivati al giorno dell’apertura, il ristorante “Il Lavoro” (scelta del nome per nulla casuale) inizia a pian piano a riempirsi. Llona e Lauri ce l’hanno fatta o il destino si sta ancora prendendo gioco di loro? E’ con questo interrogativo che si chiude il film, mentre i due protagonisti hanno lo sguardo rivolto verso il cielo. Un racconto di speranza e resilienza, particolarmente toccante grazie all’espressività trattenuta dei personaggi, che comunicano a sguardi e silenzi più che a parole.
Foglie al Vento (2023)
Foglie al Vento (clicca qui per leggere la recensione completa), ultimo film del regista (per ora), è ancora una volta un dipinto emotivo di due solitudini accomunati dal recente licenziamento. Ansa (Alma Pöysti) sbattuta fuori per aver rubato dal supermercato in cui lavorava del cibo scaduto. E Holappa (Jussi Vatanen) perché scoperto a bere sul posto di lavoro. Due anime solitarie che si incontrano per caso in una Helsinki desolata e malinconica e si danno poi appuntamento al cinema per vedere I morti non muoiono di Jarmusch, incorniciati dalle locandine di Rocco e i suoi fratelli e dalle foto di Lean e Godard.
Una trama essenziale quanto evocativa, scandita da volti espressivi, dialoghi scarni e silenzi squarciati solo dalla voce del notiziario sulla guerra in Ucraina. Così la ferocia del mondo esterno irrompe nella dimensione intima dei due innamorati. Nonostante il tono, spesso cupo, Kaurismäki riesce a comunicare l’importanza delle relazioni umane e della fiducia verso il prossimo. Raccontate sia nella scena in cui le colleghe di Ansa scelgono di licenziarsi insieme a lei, che in quella dove l’infermiera regala i vestiti a Holappa. 80 minuti che fanno, di questo ultimo capitolo della Trilogia dei perdenti, un’opera sognante, gentile e profondamente umana.